venerdì 19 giugno 2015

Alice cascherina

Un bambino di tre anni oggi usa un tablet come me, forse meglio. Sfoglia i video di youtube uno dopo l'altro, si appassiona a chilometri di filmati penosi (e angoscianti) dove mani misteriose manipolano per ore ovetti di pasqua, macchinine colorate o monster truck sadici. Corre su una piccola bici senza pedali e senza rotelle, in equilibrio per discese o salite, senza mai sentire il bisogno di riposarsi. Raramente guarda la - lentissima per lui - televisione e ancora piu' raramente riesce a tenere lo sguardo a lungo su un episodio di cartoni animati (concepito da menti antiche). L'infanzia oggi - per noi genitori - e' un mistero profondo e affascinante, nessun ricordo dei nostri primi anni di vita puo' aiutarci a districare questo caos informe di cose. Sono cose veramente nuove solo per noi: per questo bimbo di tre anni tutto e' nuovo, e dunque come puo' accorgersene?

La sera, finalmente nel letto, questo bambino di tre anni ci chiede di leggergli delle storie, il suo desiderio sembra solo una trovata per restare sveglio ancora un po'. Solo per un caso scegliamo nella pila di libretti infinitamente illustrati, un libretto che di illustrazioni ne ha pochissime: le favole al telefono di Gianni Rodari. Non so spiegarmi come questo piccolo selvaggio che sembra disponibile solo agli stimoli fosforescenti della post-post-post-modernita', improvvisamente si acquieta e ci ascolta.



Ho avuto dei brividi di emozione quando, immaginando il suo totale disinteresse, l'ho sentito chiedermi di raccontargli la "storia di Alice che cade nella conchiglia" (parole sue, che parla pochissimo e male), qualche giorno dopo avergliela letta una prima volta. E pure la pioggia di confetti, e Giovannino che tocca il naso al re, etc. etc. Le vuole sentire, e' davvero contento. E dopo tre, massimo quattro, si addormenta felice. Come fossimo in una favola.

Sono storie eccezionali, non c'e' che dire. A noi adulti colpisce l'unione meravigliosa di reale e surreale, stretti a poche parole di distanza, compressi insieme (e convincenti) in pochissime righe, una pagina o due per ogni storia. A lui forse, questa unione lo rassicura. E' cosi' che vede il mondo: ci sono le bambine, c'e' il mare, ci sono le conchiglie, e non c'e' niente di strano a tuffarsi per diventare un delfino e ritrovarsi, invece, intrappolato in una conchiglia. E' una storia plausibile, con un brevissimo momento di pathos e un finale che finisce, come dev'essere.

Come si capisce dalle righe piu' sopra, non siamo fanatici dell'antico, ma e' davvero piacevole, forse proprio per questo, scoprire che alcune cose "antiche" sono appassionanti davvero e non per abitudine. Ci fa sentire piu' giovani.

venerdì 22 maggio 2015

Tai chi

Ho fatto alcuni (pochi) pensieri sul tai chi, che pratico da tre mesi. Per non dimenticarli li scrivo qui


  1. Non so se ho capito e/o se mi interessa la filosofia, ma mi piace l'ambientazione. E' un bel gioco di ruolo e il personaggio che si interpreta ha una postura migliore della mia. E' più elegante, più sensibile, più attento, più consapevole. Ha più tempo di me.
  2. Una tale maggiore attenzione al proprio corpo offre a questo personaggio (che poi sarebbe me mentre pratico il taichi) un ventaglio di nuove possibilità, sorprese, interessi.
  3. Il taichi inoltre, se ben insegnato, appare come una scienza dura, come la fisica insomma. Non si può ingannare, o per lo meno è molto difficile. C'è sempre un banco di prova. Come in fisica gli esperimenti dimostrano (quasi) senza ombra di dubbio quando la teoria è giusta o sbagliata, così nel taichi la pratica (il corpo) svela qualunque imbroglio. Le parole dell'insegnante sono sempre vere o false. Non c'è vaghezza, ambiguità, soggettività.
E poi c'è l'indimenticabile 


lunedì 4 maggio 2015

L'edìpeo wikipedico

Ho scoperto un lapsus (collettivo?) molto divertente. Riguarda la festa della mamma: pare che molti ricordano un periodo, identificato più o meno con gli anni ottanta o gli anni novanta del secolo scorso, a seconda della generazione di appartenenza, in cui la festa si celebrava in data fissa, l'8 maggio, e solo dopo si è deciso di festeggiarla la seconda domenica di maggio, con data variabile quindi.

E' un errore, la festa della mamma dagli anni '50 si celebra sempre la seconda domenica di maggio.

Il lapsus l'ho riscontrato in una percentuale non piccola (ma comunque inferiore al 50%) tra amici, colleghi e parenti "intervistati" sull'argomento, ma soprattutto su internet. La pagina "festa della mamma" di wikipedia è l'origine più probabile dell'errore, o comunque un suo ripetitore/amplificatore. La versione di oggi recita: ",,,inizialmente la data era fissa e per circa quarant'anni cadde sempre l'otto maggio; solo a partire dal 2000 è diventata gradualmente una festa mobile, celebrata la seconda domenica di maggio come in tanti altri paesi del mondo". Con un testo simile, si ritrovano altre pagine che riportano come certo questo falso ricordo. Più sotto allego l'immagine statica di alcune tra le pagine trovate oggi, inclusa wikipedia: preferisco non linkarle (probabilmente qualcuno le correggerà).

A quanto pare nessuno mette in dubbio che oggi la data sia variabile, ma davvero molti sono convinti che in un recente passato la data era fissa, l'8 maggio. Alcuni arrivano a "spiegare" il passaggio da una data fissa a una mobile con misteriosi "motivi commerciali". Sarebbe interessante, al contrario, studiare cosa abbia spinto tanta gente a ricordare l'8 maggio come data fissa (forse un'assonanza con l'8 marzo festa della donna, che - per gli italiani - coincide con la mamma?).

Il caso di wikipedia è davvero curioso. Sfogliando la cronologia delle modifiche si vede che negli ultimi anni c'è stata una lotta tra sostenitori della versione corretta (sempre la seconda domenica di maggio) e sostenitori di quella errata (8 maggio fino a qualche anno fa). Per arrivare a far vincere la versione errata, alcuni autori hanno aggiunto riferimenti poco chiari o di consultazione non immediata (ad esempio libri introvabili, senza specificare il numero di pagina e senza citazioni precise).

La materia del contendere ovviamente è risibile, ma forse qualche studioso di memi o altre diavolerie moderne potrebbe trovarla interessante.

In questa cartella ho inserito i pdf di alcune pagine web consultate oggi, e le pagine di giornale (dall'archivio storico de La Stampa) che riportano la celebrazione della festa della mamma, in molti anni distribuiti dal 1957 al 2004, sempre la seconda domenica di maggio.





sabato 11 aprile 2015

La vera scienza si usa

C'è anche il problema della speculazione scientifica. Non nel senso del pensiero, ma nel senso della bolla. Speculativa. Scienza che cresce sul niente. Milioni di articoli che citano se stessi senza dire niente di veramente nuovo o interessante. Le citazioni sono diventate il sale della scienza, promuovono carriere accademiche, aprono i forzieri dei finanziatori, schiavizzano eserciti di postdoc. Le riviste scientifiche vogliono una fetta di questo mercato emergente e chiedono sempre più spesso soldi per la pubblicazione (dando in cambio l'open access). Ma cosa c'è che non va? Come faccio a dire "che cresce sul niente"? Sarà che i miei articoli non vengono altrettanto citati? Invidia?  E i miei colleghi che condividono questa sensazione di apocalisse, sono anche loro invidiosi? Non esiste un modo per far esplodere la bolla? Una misura oggettiva del valore di tutti questi articoli che ci sembrano insensati e che ricevono infinite citazioni?

L'unica cosa che mi viene in mente è - lo riconosco - un po' ingenua, forse irrealizzabile. Aggiungere alla fine di un articolo non solo la bibliografia ma la "usografia". Quali articoli ho veramente usato per la mia ricerca? Non so, in questo momento, come definire inequivocabilmente "uso". Ma so che molte delle citazioni che sommergono certi articoli sono citazioni vuote, citazioni di passaggio, citazioni del tipo "ti cito perchè hai il titolo giusto, perchè sei famoso, perchè hai tante citazioni, ma non so bene neanche che hai scritto". Queste citazioni sono l'origine del disastro. Nella mia ricerca ho sicuramente fatto uso dei risultati di qualcun altro, su cui ho costruito i miei. Ma sono pochi. Pochi buoni articoli di altri sono la vera base della mia ricerca. Ho usato pochi buoni articoli, per fare la mia ricerca. E se la mia ricerca è buona qualcun altro la userà. Solo una ricerca usata è una ricerca che merita.

Un tempo, quando mi chiedevo cosa fosse vero per la scienza, mi fermavo al pensiero feyerabendiano del "è scienza quel che viene accettato dalla comunità scientifica, è vero quel che viene riconosciuto vero dalla grande impresa collettiva chiamata scienza", ma non mi domandavo cosa volesse dire "riconoscere vero". A ripensarci, credo che "riconoscere vero" vuol dire "usare".

Ora bisogna capire cosa vuol dire "usare".,,

[edit del gennaio 2017: mi e' venuto in mente un modo di quantificare automaticamente il livello d'uso della citazione; in ogni articolo le citazioni vengono fatte a "gruppo" o "singole", si potrebbe distinguere dando basso peso alle prime e alto alle seconde]

Sauron non esiste, gli orchi sì

Ora mi sembra banale, qualche giorno fa (sull'onda di alcuni fatti), avevo ragionato sulla sensazione di crescente malvagità e diffusione del terrorismo, soprattutto di matrice islamica. L'unica spiegazione che mi sono dato è l'amplificazione di un circolo economico virtuoso fondato sul commercio delle armi. Che trae vantaggio dall'assenza di istituzioni. In questo momento molti grandi paesi che per decenni hanno avuto governi abbastanza stabili (libia, siria, iraq, yemen) sono - anche se con gradi diversi - senza istituzioni in grado di governare. Senza legge, senza guida, senza cultura, senza organizzazione, questi popoli vivono giorno per giorno, e frazioni non trascurabili di questi popoli scelgono la violenza e la distruzione per guadagnarsi il pane. C'è un vantaggio nell'assenza di potere: la guerra permanente. Consumo infinito di armi. Questo è quello che accade in una civiltà senza regni. La guerra permanente è la condizione in cui l'uomo è vissuto per millenni ed è la spiegazione più plausibile per il mito del Male, l'Oscurità, il Demonio. 

lunedì 2 marzo 2015

Sotto il vestito niente

Troppe volte in questi giorni mi e' capitato di leggere articoli su internet a proposito di cosa gira negli articoli su internet, tipo questo
o sulla "vita iperconnessa" tipo questo
o sulla privacy tipo questo

E mi e' venuto in mente che dovevo trovare un pensiero che fermi tutto. Un pensiero che tagli corto, che in qualche modo interrompa la sega mentale e non lasci dubbi. Il pensiero che ho trovato ha un corrispettivo fumettistico nell'opera "Arq" di quel genio assoluto del fumetto che e' il belga Andreas.

In accordo con buona parte delle teorie cognitive moderne la cognizione umana e' radicata nel corpo.

Di fronte a tutta questa azione puramente mentale che viene continuamente dispiegata su internet, cosa dice il nostro corpo? Il nostro corpo e' seduto, sempre piu' immobile, su una sedia. Protesta ogni tanto, lanciando segnali di dolore attraverso i nervi cervicali. Per il resto non ha niente da dire. Il nostro corpo non partecipa (se non in forma di sit in o resistenza passiva) a tutta questa cognizione.

E' evidente che la vita su internet e' scorporata e quindi condurra' da tutta altra parte rispetto ai nostri corpi. Il mondo visto da internet non e' il mondo dei nostri corpi. Penso anche che prima o poi dovremo fare i conti con questa differenza.

venerdì 19 settembre 2014

Popular economy?

Questo è un post in progress, lo editerò spesso. Voglio avere a portata di mano una lista di domande. Domande di economia. Perché?

Per caso mi sono reso conto che le scienze, tutte, hanno il lato tecnico e quello divulgativo, mentre l'economia ha solo il lato tecnico. Non voglio discutere su cosa sia una scienza, o se l'economia è/non è una scienza. E non voglio neanche stare a specificare a che tipo di economia sto pensando (macroeconomia, economia politica, finanza, etc. etc.). Dico solo che mi manca un bravo divulgatore di economia. Mi pare che l'economia sia discussa sempre e comunque tecnicamente, anche quando il discorso è rivolto a un pubblico di non tecnici. Ci sono articoli più generosi di altri, che provano a semplificare. Ma manca la divulgazione nel senso pieno e maturo del termine, quella che passa per autori specializzati, per libri (o altri media dello stesso spessore o profondità) dedicati. Esistono infinite realtà di divulgazione della fisica, della matematica, della biologia, dell'astronomia, delle filosofie, della medicina, della chimica, etc. etc. etc. Gli anglo-sassoni parlano di science-popularization: la corrispondente voce di wikipedia elenca un numero formidabile di divulgatori di fama, l'elenco delle riviste o dei siti che si occupano di popular science è pressoché infinito. Provate su quella pagina a cercare la parola economy: non esce niente. In fondo in quale sistema scolastico si insegna l'economia a scuola? E quindi, come e perché mai si dovrebbe popolarizzare l'economia?

Eppure l'economia interessa le persone. A ben guardare potrebbe (e spesso lo fa) interessare più della meccanica quantistica o dell'astrofisica. E infatti esiste un ricco filone di "informazione economica" (soprattutto siti web, blog), cresciuto molto in questi ultimi anni di crisi, ma è quasi sempre informazione ideologica: gli autori spendono le proprie energie nel cercare di dimostrare una tesi, senza alcun riguardo per la chiarezza e la comprensione. Il linguaggio tecnico è la norma e serve per nascondere in una coltre di fumo esoterico la parzialità degli argomenti.

Probabilmente divulgare l'economia è difficile. Forse proprio perché meno "scienza" di altre (più difficile da inquadrare nel metodo scientifico, da stendere sul tavolo degli esperimenti, da osservare con il microscopio o il cannocchiale). Forse chi ci prova si ritrova comunque a fare ideologia e quindi perde la fiducia in quel senso di oggettivo che rende le altre scienze più convincenti e semplificabili. Ma potrebbe anche non essere così. Nelle università una qualche economia si insegna, esistono testi, manuali, scuole di pensiero e leggi stabilite, non necessariamente immutabili ma spesso condivise da una grande comunità. I migliori analisti dei fenomeni economici, quelli che scrivono i grandi libri di economia spesso rivolti a un pubblico molto più vasto degli addetti ai lavori (penso per fare l'esempio più semplice e alla moda in questo momento, a Thomas Piketty), hanno le idee chiare e una visione precisa e solida sugli argomenti del proprio studio. Se volessero, io credo, potrebbero sforzarsi di divulgare. Capital in the Twenty-First Century non è un libro di divulgazione, è un libro di ricerca venduto e pubblicizzato (non proprio onestamente) come un libro accessibile a chiunque.

Ma quindi cosa significa divulgare l'economia? Forse non è del tutto ovvio. Può darsi che le domande stesse a cui rispondere, non sono chiare. Divulgare, per uno scienziato, a volte richiede uno sforzo notevole di presa di coscienza, di svisceramento critico del proprio linguaggio. Quando si imparano i concetti base della fisica si pensa di farlo in maniera rigorosa, ma moltissime sottigliezze vengono tralasciate, uno studente ne sarebbe distratto. Solo anni dopo, quando quello studente si trova in cattedra, si rende conto che le cose non erano così semplici. Ho il sospetto (davvero poco documentato, è un pregiudizio che mi piacerebbe vedere smontato) che questa "autocritica" nel caso dell'economia sia devastante o addirittura impossibile. Un paio di anni fa ho letto "Debt" di Graber, e ho provato un certo piacere nel veder smontato (dal mio ingenuo punto di vista, in maniera estremamente convincente) il mito dell'uomo preistorico che inventa la moneta per risolvere le scomodità del baratto. Eppure il concetto di moneta viene insegnato nelle università a partire da questo mito.

Il pubblico (ad esempio: io) è abituato a leggere affermazioni incomprensibili negli articoli di economia. Accetta questo stato di cose perché ha familiarizzato con queste affermazioni. Le ritrova identiche in molti articoli. A volte un'affermazione incomprensibile viene smontata e sostituita da una nuova affermazione ugualmente incomprensibile. A volte si crede di capire, per assonanza, per vaga analogia, per sfinimento. Si perde il senso della comprensione: non ho capito, ma neanche me ne rendo conto. L'importante è che sono d'accordo. Condividere è l'imperativo social, non capire.

Provo quindi ad elencare le mie domande, piano piano, quando mi vengono in mente. E le metto qui sotto. In attesa che venga il Divulgatore.

1) la ricchezza si crea dal nulla? e se sì, come? (siamo chiaramente più ricchi di 50, 100, 1000 anni fa: ma questa ricchezza era semplicemente nascosta nel nostro pianeta e l'abbiamo tirata fuori? oppure l'abbiamo inventata? e se l'abbiamo inventata, perché non ne inventiamo di più?)

2) perché ci si aspetta che una crisi finisca? non potrebbe continuare per sempre?

3) come funziona esattamente il ciclo monetario? da dove nasce la moneta fisica, e come succede che passando di mano in mano il suo valore cambia e contemporaneamente la quantità virtuale di moneta aumenta?

4) bisognerebbe spiegare bene anche cosa sia l'economia: non è la finanza, non è la moneta, non è il commercio; ho sentito qualcuno dire che l'europa (oggi che la germania vuole spingere la grecia nella povertà) è governata dall'economia e non dalla solidarietà: sono veramente in contrapposizione queste due parole?

5) si puo' fare un'economia con due persone? quant'e' il minimo?

domenica 13 luglio 2014

Nerd mediterranei

Stasera a casa del Gobbo ci ritroveremo a celebrare il ventennale di un mitico viaggio in macchina in turchia. Agosto 1994, poco più che ventenni. In quel viaggio attraversammo la penisola anatolica in lungo e in largo, da Izmir alla Cappadocia, da Instanbul ad Antalya, finendo per dormire in sale d'attesa, su ponti di traghetto, in una barca, in case appena agibili, in ostelli di ogni genere, e così via. In molte delle caldissime serate passate sotto quel cielo terso, al confine tra europa e asia (tra adolescenza e maggior età), abbiamo tirato fuori grossi libri polverosi, quaderni, fogli, matite e dadi con molto più che sei facce, e abbiamo passato ore impersonando figure inesistenti di un mondo inventato, solo vagamente imparentato con le tradizioni germaniche medioevali che sono alla base di gran parte del moderno immaginario fantasy.


Questa immagine - "noi", in una terra lontana, viaggiatori più o meno indipendenti, liberi da guide, da istruzioni, da discipline e spesso anche da saggezza e ordine, che per sfacciato e intransigente rifiuto del "cosa è giusto o ragionevole" (ma soprattutto perchè ci andava!), giocavamo di ruolo - si è ripresentata in molti altri viaggi negli anni successivi, attraverso il Marocco, la Libia, la Giordania, l'Indonesia, l'Asia Centrale, il Caucaso, la Birmania,gli Stati Uniti e non solo, ed oggi è appesa in un angolo della mia mente, o della mia casa. Mi pare sia un'immagine che meriti di essere salvata e in qualche modo mostrata a un qualche pubblico. Per questo ne parlo qui, se mai ci sarà un pubblico. Racconta di un modo di essere "nerd" che non è contemplato nei racconti ufficiali odierni, quelli - per esempio - delle serie televisive degli anni 2000, americane per lo più, in cui spesso "noi" ci riconosciamo. Non vedremo mai nessuno degli epici protagonisti di Big Bang Theory prendere una macchina e attraversare la turchia, senza un cellulare, senza un programma di viaggio, senza aver studiato. Credo ci sia molto, in questa immagine: più significati e sfumature di quel che ho provato ad accennare in queste righe.