martedì 14 novembre 2017

Meglio tardi che mai

Da adolescente (quando il social network erano 10 amici a casa, prima o dopo una seduta di gioco di ruolo) ero un rompiscatole, volevo andare in fondo alle discussioni. Tirarle molto piu' per le lunghe della maggior parte di coloro con i quali discutevo. A volte perche' ero di coccio (cioe' alla fine capivo di aver sbagliato e semplicemente non ci ero arrivato prima). A volte perche' avevo ragione ma non volevano darmela. A volte perche' l'argomento era tosto e non era facile arrivare ad una conclusione. Per mia fortuna alcuni (pochi purtroppo) degli amici con cui discutevo erano disponibili a fare tardi la notte e continuare a discutere. La gran parte pero' pensavano che volessi solo perdere tempo.

Il risultato e' che oggi la gran parte di quelle persone si trovano ingarbugliate in infinite discussioni su facebook, twitter, sui blog, sulle pagine dei commenti dei quotidiani online, etc. Io partecipo molto poco (non zero, per la verita'). Ma la maggiorparte di queste discussioni mi sembrano antiche come il mondo: sono nuovi semplicemente coloro che ne discutono, e ho la presunzione di pensare che se questi nuovi hanno la mia eta' e' perche' spesso non mi hanno voluto seguire nelle discussioni da giovane. 

giovedì 26 ottobre 2017

La scienza e il neo-lberalismo

In un recente articolo sul Guardian l'autore (Stephan Metcalf) riassume l'avvento della filosofia di Hayek dal dopoguerra ad oggi. Filosofia che è rozzamente riassunta in: il mercato è in grado di regolare nella maniera ottimale ogni aspetto della società.

Ma per spiegare come il dilagare del neoliberalismo abbia portato a far vincere negli ultimi tempi movimenti politici che spesso dichiarano di odiare questa stessa filosofia, l'autore compie una strana contorsione.

Avrebbe potuto semplicemente dire "questa filosofia non funziona - il mercato non è ottimale - e il cittadino vota contro una visione fallimentare del mondo nell'unico modo in cui può" (il cittadino in effetti potrebbe fare meglio, ci fossero dei movimenti credibili e autorevoli che si dichiarano programmaticamente contro il neoliberalismo; in assenza di questi movimenti il cittadino finisce per abbracciare nazionalismi anche estremi, populismi confusi, leader senza alcun programma sensato, etc.).

L'autore invece sceglie di passare per un'idea giusta ma sbagliata.

L'autore scrive "What can’t be quantified must not be real, says the economist, and how do you measure the benefits of the core faiths of the enlightenment – namely, critical reasoning, personal autonomy and democratic self-government? When we abandoned, for its embarrassing residue of subjectivity, reason as a form of truth, and made science the sole arbiter of both the real and the true, we created a void that pseudo-science was happy to fill. The authority of the professor, the reformer, the legislator or the jurist does not derive from the market, but from humanistic values such as public spiritedness, conscience or the longing for justice. Long before the Trump administration started demeaning them, such figures had been drained of salience by an explanatory scheme that can’t explain them. Surely there is a connection between their growing irrelevance and the election of Trump, a creature of pure whim, a man without the principles or conviction to make for a coherent self."

Mi sembra una giusta intuizione (non voglio ovviamente dire che sia nuova) quella di legare l'esaltazione del mercato all'esaltazione del "quantitativismo". E quindi la negazione di ogni valore che non sia quantificabile, di tutti gli aspetti umani della ragione, cioè quegli aspetti che sfuggono alla volontà oggettivante della scienza. Mi sembra un'intuizione molto giusta quella che scienza e ragione non coincidono, che la prima è la disumanizzazione della seconda.

Mi sembra un'intuizione sbagliata quella di vedere la sconfitta del piano umano (e quindi di certe autorità, ad esempio quella del professore, del riformatore, del legislatore, del giurista e io aggiungerei anche del medico) come un fenomeno passivo e ineluttabile, deciso da altri fuori della propria sfera (ad esempio dai cittadini). Le autorità razionali ma umane hanno spesso abbracciato esse stesse la religione della quantificazione. Le università vogliono quantificare il valore dei docenti, degli studenti, dei corsi, etc. I medici vogliono misure oggettive e parametri condivisi. I legislatore vuole affidarsi alla democrazia diretta. Sono stati i detentori della ragione a cedere le armi alla scienza del prezzo e della quantità, vedendola come occasione per liberarsi di ogni responsabilità. Ma chi si deresponsabilizza finisce per perdere autorevolezza e quindi autorità. Se un medico dice "tutto quello che faccio è applicare La Scienza", un suo errore equivarrà a un fallimento de La Scienza. Il paziente curato male rifiuterà La Scienza, anzichè il suo medico.


Riassumendo. La ragione umana si è inginocchiata al suo lato disumano, la scienza-prezzo (così come il cittadino ha elevato il prezzo ad arbitro del proprio valore). La scienza però periodicamente fallisce, è un'impresa umana. Come il mercato. E così come da troppo mercato emergono i movimenti "anti-liberali", da troppa scienza emergono i movimenti anti-scientifici. Sono due fenomeni paralleli e in entrambi i casi i principali attori delle rispettive sfere (i politici e gli intellettuali) hanno scelto un fanatismo che prometteva efficienza senza responsabilità. Fallendo e subendo la punizione (scomposta e irrazionale) della democrazia.









mercoledì 13 settembre 2017

Diverse sovranità

"Contro la concezione tedesca della “sovranità statale”, di quella francese della “sovranità nazionale”, noi abbiamo affermato la “sovranità popolare” quindi democratica. A questo tipo di sovranità io tengo. E allora, quando arrivano al parlamento i “regolamenti comunitari” e ci si dice “sono obbligatori” perché così prevede il Trattato di Roma, io reagisco. A questo proposito ho fatto una lunga battaglia, mi pare nella legislatura passata. Sono riuscito, per tre anni, a tenere in scacco il governo sulla richiesta di delega per approvare questi, “regolamenti comunitari”, con provvedimento delegato. La mia battaglia non era contro il contenuto dei “regolamenti comunitari”, ma voleva sottolineare un aspetto costituzionale. Posi allora, e non solo io, ponemmo in parecchi - naturalmente fummo messi in minoranza - il problema della validità di questa norma del Trattato, perché, secondo la nostra Costituzione, le leggi vengono approvate dal parlamento: non ci può essere una legge, senza approvazione del parlamento. Quando si dice che un certo Trattato ha delegato ad un’Autorità Comunitaria la facoltà di emanare provvedimenti obbligatori, diciamo che quel Trattato dove va essere ratificato con legge costituzionale, perché era una modifica della costituzione. Senza legge costituzionale, a nostro avviso, quei Trattati, almeno per quel che si riferisce alla legge di ratifica, almeno per quanto riguarda quella disposizione, non potevano essere validi. Il parlamento non può essere spogliato della decisione. Naturalmente chi ha sostenuto questa tesi ha avuto torto. Dopo tre anni di battaglia sono state approvate quelle norme comunitarie che noi avevamo tenute ferme. Però io continuo a considerare che qui quello che conta non è che l’Italia viene spogliata della sovranità nazionale, ma viene spogliata della sovranità popolare, democratica, perché noi abbiamo degli organi, come la Commissione Comunitaria o degli organi puramente di potere esecutivo, come il Consiglio dei ministri, che approvano le disposizioni di legge, non avendone, il potere, secondo la nostra Costituzione. Si invoca sempre la norma per cui il Diritto Internazionale prevale sul Diritto Interno. In realtà questa è una norma che va sempre - come dire - bilanciata con le norme costituzionali, perché se dovesse essere interpretata altrimenti noi arriveremmo alle possibilità più assurde. Ripeto, quella che viene calpestata non è la sovranità nazionale, alla quale possiamo benissimo rinunciare, a condizione che sia rispettato, però, il fondamento della sovranità, che per noi è sempre il popolo e deve essere il popolo."

Lelio Basso, estratto di un intervento del giugno 1973, ad un convegno sul Federalismo europeo.

E oggi, detto piuttosto bene da Nello Preterossi in un intervento al convegno "Unione Europea, Lavoro, Democrazia. Contributi per il programma dell'alternativa" del 9/9/2017:

venerdì 1 settembre 2017

Domanda clandestina

Da questo spazio a misura nulla (tale che anche una singola visualizzazione è infinitamente improbabile), mi permetto di porre una domanda. Forse oziosa, qualcuno dirà paranoica.

Nel 2014 gli sbarchi annuali aumentano da 40mila a 170mila e a questo livello - con fluttuazioni - rimangono negli anni successivi (2015 e 2016, forse meno nel 2017 visti gli ultimi provvedimenti).

L'umanità parla a favore degli sbarcanti, una supposta necessità di "tenuta democratica" (considerata da alcuni - in maniera molto poco condivisibile - equivalente alla tenuta del partito democratico) e forse una lettura critica della storia economica del mondo danno ragione agli italiani.

La domanda è semplice: il brusco salto nel 2014 è un fatto naturale (spontaneo, dovuto come dice wikipedia alla nuova guerra civile in libia) o il risultato di una strategia?


ADDENDUM DEL 4/2/2018: un'intervista a Emma Bonino


domenica 27 agosto 2017

La scienza è democratica

Girando ho trovato un bel libro di Richard Feynmann che a pagina 186 dice delle cose che condivido pur non avendole mai pensate.

Another of the qualities of science is that it teaches the value of rational thought, as well as the importance of  freedom of thought; the positive results that come from doubting that the lessons are all true. You must here distinguish - especially in teaching—the science from the forms or procedures that are sometimes used in developing science. It is easy to say, "We write, experiment, and observe, and do this or that." You can copy that form exactly. But great religions are dissipated by following form without remembering the direct content of the teaching of the great leaders. In the same way it is possible to follow form and call it science but it is pseudoscience. In this way we all suffer from the kind of tyranny we have today in the many institutions that have come under the influence of pseudoscientific advisers.

We have many studies in teaching, for example, in which people make observations and they make lists and they do statistics, but they do not thereby become established science, established knowledge. They are merely an imitative form of science—like the South Sea Islanders making airfields, radio towers, out of wood, expecting a great airplane to arrive. They even build wooden airplanes of the same shape as they see in the foreigners' airfields around them, but strangely, they don't fly. The result of this pseudoscientific imitation is to produce experts, which many of you are-experts. You teachers who are really teaching children at the bottom of the heap, maybe you can doubt the experts once in a while. Learn from science that you must doubt the experts. As a matter of fact, I can also define science another way: Science is the belief in the ignorance of experts.

When someone says science teaches such and such, he is using the word incorrectly. Science doesn't teach it;  experience teaches it. If they say to you science has shown such and such, you might ask, "How does science show it—how did the scientists find out-how, what, where?" Not science has shown, but this experiment, this effect, has shown. And you have as much right as anyone else, upon hearing about the experiments (but we must listen to all the evidence), to judge whether a reusable conclusion has been arrived at.

In a field which is so complicated that true science is not yet able to get anywhere, we have to rely on a kind of old-fashioned wisdom, a king of definite straightforwardness. I am trying to inspire the teacher at the bottom to have some hope, and some self-confidence in common sense, and natural intelligence. The experts who are leading you may be wrong.

giovedì 13 luglio 2017

Il sistema debitistico

Domanda ingenua ma sincera. E se smettessimo di chiamare il nostro sistema economico "capitalistico" e imparassimo a chiamarlo col suo vero nome, cioè "debitistico"? Si cresce grazie ai debiti. Senza i debiti non si fa nulla. In un'economia pianificata il debito non serve, ci si mette a tavolino e si cresce secondo piano prestabilito. Il "capitale" è di tutti e non serve prestarlo per crescere.

Cambiare nome farebbe smettere di considerare immorale e riprovevole indebitarsi. Indebitarsi è il sale del nostro sistema. Il capitalista lo sa bene, il lavoratore se ne dimentica.

sabato 17 giugno 2017

La spirale

Crescendo, soprattutto da giovane, nelle età in cui più veloce evolveva il mio pensiero, ho sentito spesso come fosse un fatto concreto il susseguirsi di contrapposizione e superamento che qualcuno credo chiami dialettica. Che prendeva quasi sempre le fattezze di un banale "ah sì, ma io questa cosa qui l'ho già pensata e superata, e ora la penso diversamente". E che mi faceva sentire come sulla rampa di un garage a spirale, in continuo cambio di direzione, e soprattutto incrociando continuamente altri a qualche livello (secondo me inferiore, ma chissà quante volte mi sarò sbagliato) della stessa spirale, in direzione più o meno opposta. Per poi trovarmi qualche anno dopo più su, ma nella stessa direzione in cui andava quel qualcuno che pochi anni prima pensavo andasse nella direzione sbagliata. E alla fine penso di essere salito parecchio, e se non era salire era comunque un allontanarsi dal punto di partenza.

Questa immagine della rampa di garage che spiraleggia sembra descrivere quello che accade nel discorso collettivo "social" dei nostri ultimi giorni. Il vociare (o il pensare) della grande rete. Milioni di persone che salgono e si incrociano. E' un'immagine ottimista, secondo me. Andranno comunque lontano, anche se per ora sembra che si odiino e che non potranno capirsi mai.



giovedì 4 maggio 2017

Ris-post

Ho già varie volte parlato de Il Post, l'unico sito italiano di notizie che riesco a leggere e che (pur avendo molti difetti) stimola qualche mia riflessione. Parlandone ho sempre finito per menzionare il (peraltro) direttore Luca Sofri, che ogni tanto pubblica dei propri interventi firmati. Fino a qualche tempo fa lasciava aperta la possibilità di commentare, poi si vede che si è stufato. Una cosa che notavo è che alcune cose che scrive sono molto condivisibili, altre non lo sono affatto.

Gli ultimi suoi tre interventi (a distanza - peraltro - molto ravvicinata nel tempo, tutti tra il 1 e il 4 maggio) rientrano benissimo in questa storia di accordi o disaccordi radicali.

Nel primo dei tre, Tu chiamala se vuoi post verità, commenta un bell'articolo di Baricco. Baricco sostiene che il discorso sulla "post-verità" è una truffa: chi prima monopolizzava la verità (anche tradendola) oggi non riesce più a monopolizzarla, e quindi chiama "post-verità" la congerie di racconti mezzi falsi e mezzi veri proposti dal "popolo" (oggi dotato di una voce, il web) per cercare di ricacciare questi racconti nello spazio dell' "inaffidabile" e riconquistare il monopolio perduto. Riassumendo: non è che prima c'era la verità e oggi ci sono le bugie, piuttosto prima verità&bugie le raccontavano in pochi, mentre oggi lo fanno in molti, moltissimi. Non sembra che Baricco assegni un valore positivo o negativo a questa esplosione di voci. Ne assegna uno decisamente negativo a chi racconta questa esplosione di voci in termini di esplosione di bugie. Sofri dice di essere daccordo, ma si contraddice quando insiste che non bisogna "dare corda a chi sostiene che non ci sia niente di nuovo e le bugie ci sono sempre state". Qui Sofri e Baricco divergono. Per Sofri il nuovo sono proprie le bugie. Nelle ultime righe Sofri ribadisce il pensiero dell' "élite della ragione": "fatti e sapere sono importanti". La maggioranza non li considera più importanti, questa è la novità di oggi. Non posso essere più in disaccordo (come credo lo sia Baricco).  Certo che fatti e sapere sono importanti, e oggi come ieri questa importanza è riconosciuta, anche dalla maggioranza. La maggioranza vuole la verità, non la post-verità. Esattamente come ieri. La novità oggi è che alla ricerca della verità (con i suoi passi falsi voluti o no) concorrono miliardi di persone, invece che poche migliaia. E quindi i passi falsi (voluti o no) sono moltiplicati per un fattore un milione. Non c'è una soluzione veloce, bisogna aspettare che la discussione collettiva faccia emergere il pensiero critico nella collettività, così come nei secoli è emerso nelle élite. Accodarsi invece a chi dice che la verità non poggia più sulle vecchie basi solide dei fatti significa rischiare seriamente di accodarsi a chi in realtà pensa "la verità la voglio controllare solo io". 

Nel secondo dei tre, La democrazia dei crash, dice una cosa giustissima, cioè che la democrazia dei clic invocata da m5s è al momento irrealizzabile e Grillo (per quanto brillante e grande comico) è come uno scammer che manda mail truffaldine accusando chi non clicca sui link di essere retrogrado.

Nel terzo dei tre, Turarsi il nez, dice una cosa altrettanto giusta e ancora più importante. E cioè che turarsi il naso alle elezioni ha un effetto positivo e uno negativo: quello positivo è evitare che il candidato peggiore vada al governo, quello negativo è perpetuare il peggioramento (o la stazionaria mediocrità) della parte politica meno peggio, che si trova a ricevere un voto senza aver tentato di migliorarsi. Quella parte politica finisce per sentirsi "intoccabile", salvaguardata dal fatto che gli altri sono talmente "un rischio" che al momento del voto gli elettori si dovranno per forza turare il naso. Aggiungo di mio. Questo meccanismo non solo impigrisce quella parte politica, ma addirittura può spingerla a perpetuare il meccanismo stesso, favorendo l'emergere e il consolidarsi di forze politiche estremiste. Giocando col fuoco.


venerdì 31 marzo 2017

Fine, mezzi, ideologie

Un esempio ovvio della (trita) complessita' del mondo e' la (forse meno trita) osservazione che una gran parte dei fenomeni a cui assistiamo hanno molte - separate e spesso indipendenti - cause.

E che quindi ogni analisi di un fenomeno problematico che si concentra troppo su una sola causa, perorando la sua rimozione come mezzo per raggiungere rapidamente la soluzione, e' fallace.

Questa osservazione spesso manca. Ma a volte c'e' e - paradossalmente - e' usata nel modo sbagliato, ovvero per dimostrare che una certa causa non e' davvero una causa.

L'uso piu' elementare della logica ci insegna invece che una condizione puo' essere necessaria ma non sufficiente. E che dunque e' tanto sbagliato concentrarsi su una sola causa, quanto fare il suo opposto, cioe' dedurre dalla sua insufficienza la sua inesistenza.

Questi due errori speculari sono forse un'eredita' del nostro millenario monoteismo su cui si sono fondate filosofie, letterature e soprattutto politiche.

Mi pare nel 1990, pochi giorni dopo aver visto sul mio videoregistratore il documentario La cosa di Nanni Moretti (che per molti e' una lezione di cinema e di giornalismo, ma per me fu soprattutto affascinante angoscia, inorridita confusione: a 16 anni avevo appena cominciato a pensarmi comunista...) andato in onda troppo tardi sulla rai, la mia prof di Italiano ci parlo' di Machiavelli e Guicciardini e dopo diverse letture e lezioni ci chiese - forse un po' per gioco - di prendere una parte, dare una preferenza. Mi dispiacque scoprire che io preferivo Machiavelli e lei Guicciardini.

Forse oggi mi e' piu' chiaro che il fine puo' essere unico, ampio e universale, ma questa sua unita' non va estrapolata ai mezzi. Che sono tanti e diversi e possono persino essere in contrasto tra loro. Se - motivati da un fine sintetico - si cerca nei mezzi la stessa sintesi, si finisce per fare ideologia.

Tutto questo mi e' venuto da pensare, riflettendo su euro e no-euro, in questi giorni di dibattito che mi sembra sempre piu' popolato di sordi urlatori. Con pochissime (non necessariamente simpatiche, ma comunque illuminanti) eccezioni. Anche nel dibattito populisti/nazionalisti vs. liberali/globalisti, anche qui con pochissime eccezioni.




lunedì 13 marzo 2017

Un pensiero semplice, su genitori e figli

Spero di non sbagliarmi (uso il senso e l'esperienza, che è poca). Mi sembra che un genitore ha maggiori speranze di dare un contributo positivo alla crescita dei propri figli se è felice e consapevole delle ragioni di questa felicità. Parlo ovviamente di convergenze statistiche, in media, in varianza, in distribuzione, fate voi.

Vedo come un fatto positivo la percezione di frequenti momenti di piacere concreto e - insieme - la capacità di giustificarli, di contestualizzarli in un percorso di crescita personale.

Ad esempio: la lettura. Leggere è bello concretamente, non per principi tramandati e astratti. E' bello perchè riempie di divertimento molti pezzi di tempo e infonde nei nostri pensieri vagonate di storie e personaggi che arricchiscono le nostre conversazioni, illuminano il nostro stare con gli altri, il nostro guardare il mondo. Se ho avuto fortuna nell'innamorarmi è anche perchè ho letto molto. Se ho capito rapidamente che lavoro volevo fare (e ci ho azzeccato), è anche perchè ho letto molto.

Ma di esempi ce ne sono infiniti: tante cose della scuola "servono" alla felicità, alla libertà, al controllo della vita, anche solo a difendersi dalla tristezza o dalla depressione. E la scuola è piena di strade sbagliate, che diventano subito evidenti (e quindi giuste) se le si guarda alla luce della nostra felicità attuale.

Collegare le cose con cui siamo cresciuti alla nostra felicità è una chiave per essere genitori migliori.

martedì 28 febbraio 2017

La Post-verità

Come dicevo qualche mese fa, ho un solo posto dove mi fa piacere andare piu' volte al giorno per leggere le notizie, ilpost . Purtroppo anche quel post(o) li' non mi soddisfa fino in fondo. Pur abbracciando una filosofia corretta di verifica della notizia e di asciuttezza del racconto, pur spendendo molto (con ottimi risultati) nel tentativo di spiegare la complessita' dei fatti stando attenti, nei limiti del possibile, a non dare mai niente per scontato, ilpost e' permeato di una certo positivismo che non condivido e che e' solo in parte la diretta conseguenza della parte politica scelta (il pd possibilmente renziano).

Il post, nei panni del suo direttore (Luca Sofri) e dei suoi editorialisti (firmanti e non), ha una fiducia nella ragione e - conseguentemente - nella verita', che non mi soddisfa. Anche oggi, il direttore scrive un articolo sul panorama elettorale globale (crisi delle sinistre, populismi, trump+brexit etc. etc.) con diversi passaggi a mio avviso superficiali:


  • "I due appuntamenti elettorali più importanti dell’anno passato – negli Stati Uniti e Gran Bretagna – sono stati vinti da messaggi non solo di destra conservatrice, ma più propriamente di demagogia bugiarda e incompetente"
  • "Uno spettro si aggira per il mondo, e i giornali lo chiamano populismo per fare prima, ma è costituito sostanzialmente da due elementi psicologici che hanno attecchito in tantissimi individui: lo sdoganamento della rivendicazione dell’egoismo e dei propri piccoli interessi, e quello dell’ignoranza e dell’incompetenza "
  • "....con sprezzo del sapere, dei fatti, dello studio delle cose, del passato e del futuro"
Secondo il direttore del post gli elettori hanno smesso di cercare la conoscenza e la competenza, valori che distinguevano (e ancora distinguono) la sinistra, e per questo hanno smesso di votare in quella direzione. Ed e' un peccato perche' conoscenza e competenza erano garanzie di un bene diffuso e duraturo (in contrasto con l'ignoranza e la bugia demagogica che soddisfano i bisogni dei singoli sul breve periodo).

L'assunzione di fondo insomma e' una sostanziale equivalenza tra tre "cose": 1) ragione/competenza/studio, 2) partiti che si dichiarano di sinistra o progressisti, 3) benessere diffuso e duraturo. A me pare un punto di vista estremamente superficiale, grossolano, vago. Oserei dire cieco. Che non vuole capire. Che non sa dove andare.

In molti editoriali (ad esempio quelli che trattano i molti complessi aspetti dell'evoluzione del giornalismo moderno), Luca Sofri scrive cose che condivido e che mi appaiono intelligenti e approfondite. In altri (come in questo) dove si discute la trasformazione della societa' e della politica, noto sempre un'improvvisa caduta della qualita' dell'analisi, dell'attenzione ai dettagli, alle differenze, e all'evitare grandi generalizzazioni, idealismi e filosofie banali.

Personalmente ritengo che: 1) forse in Italia - per motivi storici particolari, perche' abbiamo avuto una destra che manganellava - c'e' una tendenza, per chi ha una certa attenzione allo studio, al sapere e alla competenza, a fare politica (o a votare) a sinistra; ma questo non e' un fatto che riguarda necessariamente tutti i paesi del mondo (certamente non riguarda stati uniti e inghilterra, i due principali evocati nell'editoriale); in ogni caso negli ultimi tempi ho la sensazione che la competenza abbia abbandonato anche la sinistra (ad esempio la sinistra italiana sta completamente rimuovendo il problema dell'analisi macro-economica, per paura di entrare in terreni "di destra", un fatto drammatico che quaranta anni fa sarebbe stato semplicemente ridicolo, essendo la lettura economica della realta' una prerogativa fondante di tutte le sinistre) ; 2) non e' affatto ovvio che in paesi con forti squilibri di distribuzione della ricchezza (e noi paesi "occidentali" siamo oggi molto piu' squilibrati di quaranta anni fa) la competenza sia per forza sinonimo di benessere diffuso: forse negli anni '70 si poteva avere fiducia cieca nelle buone intenzioni di uno studioso, ma oggi? come si puo' aver fiducia in un'analisi economica che sembra continuamente pilotata da interessi diversi da quelli dei cittadini? 3) i partiti cosiddetti progressisti non hanno le idee chiare su quale sia la strada verso un benessere diffuso e duraturo, negli anni 2013-2016 (fermandoci cioe' ai governi letta/renzi) il nostro pil e' stato mediamente fermo.




domenica 12 febbraio 2017

L'economia va insegnata dalla terza elementare.

Nel mio vagabondare, probabilmente zoppo, non trovo nessuno che lo dica così chiaro e tondo. Per cui lo faccio io.

L'economia è importante - per la vita di un cittadino libero - quanto la grammatica e l'aritmetica, quanto la geografia e la storia. Ne ha bisogno per respirare.

Il problema dell'economia, mi sembra, non è che sia più difficile della grammatica, dell'aritmetica, della geografia e della storia. Il problema è, forse, che l'economia è una storia di idee che si scontrano tra loro (e, più raramente, con l'empirico).

Va bene, sarebbe il caso comunque di insegnarla come tale, nelle scuole, fin dalle elementari. Servono profondi conoscitori di queste idee che sappiano metterle tutte in chiaro, nel loro susseguirsi logico e storico. Che scrivano un "sussidiario di economia" per bambini di otto anni.

E' un esercizio dal quale la stessa economia trarrebbe giovamento. Un bambino di otto anni non sa nulla di politica. Eppure si chiede cosa succede nel mondo, da dove arrivano i soldi, dove vanno. Da dove vengono le merci. Cos'è un lavoro, cos'è una tassa, cos'è un prezzo. L'economia è una visione aperta e completa del mondo, che per funzionare - per essere convincente - ha bisogno di mettere tutte le carte sul tavolo. E' una fisica degli scambi tra persone.

Forse non si insegna a scuola perchè non c'è mai stato nessuno capace di insegnarla. Questo non toglie che sia necessario provarci.

lunedì 30 gennaio 2017

Numeri

Mi piacciono di più le parole, ma capisco di più i numeri.

La fonte è l'istat e per il 2015 è ben riassunta qui



Italia popolazione

Il pil italiano nel 2015 è stato 1642 miliardi

Il volume di importazioni/esportazioni annuali del 2015 è di 443/493 miliardi (circa 30% del pil)


Italia stato

Il gettito fiscale nel 2015 è di 490 miliardi (30% del pil)

Il debito pubblico accumulato fino al 2015 è di 2170 miliardi (132% del pil) che implica una spesa annuale di 68 milardi annui di interessi passivi (3% del debito, 4% del pil)

Entrate e uscite della PA sono circa 785/828 miliardi: deficit di 43 miliardi (2,6% del pil)

Il saldo primario (entrate-uscite-interessi) del 2015 è stato di 25 miliardi (1,5% pil)



L'italiano in media produce 27mila euro l'anno, compra e vende circa 8mila euro di beni, paga circa 8mila euro di tasse. Lo stato ha un debito pregresso di circa 35mila euro per italiano, e per questo debito paga mille euro annui per italiano, se non pagasse questo debito sarebbe in attivo di 400 euro per italiano.